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Andrè-Pierre Gignac, il bomber dei due mondi

bomber story09/09/2017 • 16:36
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Sei un calciatore di 29 anni, giochi in un club prestigioso come il Marsiglia (a quattro passi dalla città in cui sei nato) e hai appena giocato la miglior stagione della tua carriera. Hai dimostrato di essere un bomber di livello, in Francia sei secondo nella classifica marcatori solo a un certo Ibrahimovic e hai alcuni dei club più importanti di Spagna, Italia, Germania e Inghilterra che sono pronti a darti una maglia da titolare nell’anno che precede l’Europeo (che si gioca proprio nel tuo paese). E tu cosa fai? decidi di fare la valigia e partire per l’altro lato del mondo, in Messico. “E se i francesi non sono d’accordo, che se ne vadano ‘a la mierda’“, come affermato senza mezzi termini dal suo procuratore Christophe Cano. Ma perché questa scelta?

 

Non so quante persone hanno fatto questa domanda ad Andrè-Pierre Gignac, credo molte. Ma molti di quelli che gli hanno chiesto il perché del suo addio al calcio europeo in realtà si erano già fatti un’idea ben precisa dei motivi che hanno spinto il gigante di Martigues a volare verso il campionato messicano: soldi, tanti soldi. Quattro milioni e mezzo di dollari l’anno, che fanno di lui il calciatore di gran lunga più pagato di tutta la Primera Division, sponsorizzazioni e bonus vari esclusi. Prima del suo arrivo il contratto più ricco era quello di Roque Santa Cruz, che al Cruz Azul guadagnava 2,6 milioni, e solo Humberto Suazo aveva guadagnato più di 3 milioni l’anno. Spiegare tutto con il denaro nel suo caso però è troppo riduttivo, anche perché se avesse scelto di giocare in uno dei club del nostro continente che lo corteggiavano di sicuro non avrebbe guadagnato bruscolini.

Nel suo trasferimento, che ha ribaltato il paradigma calcistico che vede i migliori talenti latini dover volare in qualche ricco club europeo per affermarsi definitivamente, ci sono motivazioni diverse, che vanno oltre le logiche economiche che governano il calcio contemporaneo. C’entra anche la voglia di diventare un’icona per milioni di persone che considerano il calcio quasi una religione. Con i suoi 26.600 mila spettatori durante il torneo di Apertura dello scorso anno la Liga Messicana si è confermata come il campionato più seguito fuori dall’Europa e il quarto al mondo, dietro solamente a Bundesliga, Premier League e Liga. Molto più avanti della nostra Serie A, tanto per dire. È vero che i prezzi dei biglietti sono spesso inferiori ai 2 dollari, ma questo seguito così incredibile è dovuto soprattutto alla passione popolare. In Messico il pallone è proprio una questione di popolo.

Gignac ha scelto di andare controcorrente anche perché sapeva che se avesse fatto tanti gol al Tigres avrebbe superato il mero status di atleta, cosa che poi effettivamente è avvenuta. Il Volcán di Monterrey (l’Estadio Universitario, così soprannominato per il suo incredibile calore) con le 50000 persone che lo riempiono in ogni partita esplode, come un vero vulcano, ogni qual volta il bomber francese gonfia la rete della porta avversaria, cantando il suo nome sulle note di “Hey Jude” dei Beatles.

Che Gignac fosse un personaggio sui generis si era capito già da molto prima della sua scelta. Il suo rendimento è sempre stato altalenante, anche a causa di una forma fisica non sempre al top. A Tolosa è passato dall’essere capocannoniere della Ligue 1 con 24 gol nel 2009 ai soli 8 centri del 2010. Al Marsiglia nella stagione 2011/2012 segnò un solo goal in 21 apparizioni e trovò un feeling particolare, più che con i compagni di squadra, col cibo dei fast food. Passò così da bomber in grado di terrorizzare le difese a zimbello dei tifosi avversari, che prima di ogni partita intonavano beffardamente il coro “Un Big Màc pour Gignac. Un continuo alternarsi tra crolli e rinascite, momenti di sbandamento e stagioni da fenomeno, fino all’incontro con Bielsa.

El loco” e il suo modo di intendere il calcio fanno breccia nel cuore l’attaccante, nonostante qualche litigio (ma due come loro non potevano non litigare). “Si dice che non si smetta mai di imparare ad ogni età, ed è vero. Quello che ho vissuto con Bielsa in un anno non mi era mai capitato in tutta una carriera – ha detto in un’intervista di qualche tempo fa. – I suoi modi di allenare, di parlarci, i tantissimi video che ci mostrava. Psicologicamente ti stanca ma allo stesso tempo ti arricchisce. Penso di esser migliorato in tante cose, il pressing, i colpi di testa.. Prima non segnavo tanto con la testa. Non è stata una trasformazione ma quasi.” A Marsiglia il “Bielsismo” era diventata una corrente di pensiero e Gignac era la punta di diamante di una squadra plasmata dalle idee del maestro argentino.

Una volta andato via lui per il bomber di Martigues è cambiato tutto. Senza il suo mentore sulla panchina ripetersi sarebbe stato difficile. Ci voleva un cambiamento, che per uno come Gignac non poteva che essere radicale. Forse sulla decisione di andare lì dove il calcio è pura passione ha influito anche il loro rapporto.

A due anni dall’arrivo in Messico si può già dire che Gignac è parte importante della storia del calcio messicano, dato che ha trascinato il Tigres alla vittoria di due campionati, segnando a raffica, ed è stato il primo francese a giocare una finale di Copa Libertadores. Quella finale che forse è il suo più grande rimpianto, assieme al palo colpito a porta vuota nella finale degli Europei tra Francia e Portogallo.

Anche lì ha avuto i suoi alti e bassi, altrimenti non si chiamerebbe Gignac. Dopo un periodo di due mesi senza gol ha chiesto aiuto all’ipnotizzatore John Milton. Dopo aver ritrovato il gol il francese ha creato una nuova esultanza, in cui “ipnotizzava” i suoi compagni di squadra che si buttavano a terra come se fossero posseduti da lui. Prima di quella l’esultanza più conosciuta era quella “alla Goku”, con la quale imitava l’onda energetica che l’eroe dell’anime giapponese.

I gol, le esultanze e la sua simpatia lo hanno trasformato in una vera e propria icona. Al “Bomboro” hanno dedicato addirittura un pupazzo e per le strade di Monterrey è possibile imbattersi in una sua rappresentazione su Murales, privilegio riservato a pochi.

 

L’amore di milioni di tifosi, la presenza nell’immaginario collettivo di un paese. Il ragazzo nato a pochi chilometri da Marsiglia ne ha fatta di strada. Quella scelta che per tanti non aveva senso alla fine alla fine ha pagato, in tutti i sensi.

Anche se non lotterà per vincere una Champions o un qualsiasi campionato europeo Andrè-Pierre Gignac rimarrà per sempre un’icona, l’uomo che ha abbattuto degli schemi geografici che sembravano immutabili per riscrivere la storia calcistica di un intero paese. 

Grazie a Vincenzo Renzulli per la preziosa collaborazione

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Autore

Redazione

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