Abbiamo avuto il piacere di intervistare Johnny Calà, figlio dell’illustre attore Jerry, al suo primo lavoro come regista. Nel novembre del 2024, il giovane film maker ha presentato il suo primo docu-film dal titolo ‘Bootay Untold – L’arte di perdere’. Studente universitario all’ultimo anno dell’Accademia Visconti a Milano (centro sperimentale nel mondo del cinema), Johnny Calà ha risposto in maniera originale e senza filtri alle domande di “Chiamarsi Bomber”.
Ciao Johnny, raccontaci del tuo progetto ‘Bootay Untold’ e come nasce l'idea
L’idea nasce da una mia esperienza e passione personale. Ho militato nelle giovanili del Chievo fino ai 13-14 anni, ho quindi avuto il piacere enorme di far parte di una realtà storica nel periodo in cui la Prima Squadra era ancora in Serie A. Inoltre conosco Jacopo Brama, il presidente di questa squadra di calcio a 7 che si chiama appunto ‘Bootay’. Lui ha deciso di creare una squadra personale in un mondo esterno al vero calcio a 11 che tutti conosciamo, un progetto che fosse più in linea con i suoi valori a cui io mi sono avvicinato frequentando il torneo del ‘Nievo’.
Si tratta di un torneo amatoriale locale che va in scena a Verona da oltre 20 anni e al quale hanno partecipato nel tempo volti noti del professionismo, tra vecchie glorie e ragazzi che tutt’ora militano in Serie A come ad esempio Vignato e Danzi, ma addirittura sono passati anche sindaci della città e parlamentari. È come se fosse la nostra Champions League! Vedendo il curriculum dei giocatori e notando l’elevato tasso tecnico di questi ragazzi, mi sono interessato sempre più a questo mondo. Abbiamo fortemente voluto raccontare coloro che non sono mai stati raccontati, quel mondo nascosto che non fa parte del professionismo italiano.
Nel film parliamo di calcio giovanile. Qualcuno lo definirebbe un po’ come la storia di chi non ce l’ha fatta, di questi giocatori di talento che sono arrivati alle porte del professionismo ma poi non sono riusciti ad esplodere definitivamente o a confermarsi a certi livelli. In realtà è proprio il contrario: noi raccontiamo di ragazzi che hanno un amore per il calcio che va oltre la semplice passione, per loro è proprio vita. Questi giovani hanno trovato un rapporto di pace ed equilibrio con questo sport anche se non si sono realizzati ai massimi livelli.
Perché la squadra si chiama ‘Bootay’?
Bootay in realtà è uno slang inglese, un gioco di parole che si è inventato il presidente della squadra e che deriva dalla parola ‘butei’. Nel dialetto veronese, i butei sono i ragazzi, gli amici. Ci piaceva l’idea dell’attaccamento al territorio, alle proprie radici e al luogo in cui siamo cresciuti.
Il sottotitolo del film è "L'arte di perdere": si lega in qualche modo al film "L'arte di vincere" sul football americano con protagonista Brad Pitt?
Ovviamente non è una coincidenza, il legame con questo film c’è. Nasce perché io stavo cercando un sottotitolo nazionale che fosse comprensibile per tutti ed ho preso spunto da ‘L’arte di vincere’, un film scritto veramente bene secondo me. La differenza è che noi abbiamo fatto una sorta di masterclass su come perdere!
Nel documentario sono presenti anche ex giocatori illustri come Pellissier, Tommasi, Albertini, Sorrentino. Come li hai convinti a partecipare?
Pellissier e Sorrentino li conoscevo già, con loro c’era proprio un rapporto personale di amicizia davvero bello. Sergio l’ho conosciuto nel mondo Clivense, è una persona straordinaria: quando gli ho scritto per presentargli il progetto con un messaggio bello lungo, lui mi ha risposto semplicemente ‘Amico mio, per te qualunque cosa, non ti preoccupare’. Saggio e disponibile, è stato molto bravo anche a calarsi in questa realtà: nel film c’è un bel dialogo tra questi ragazzi ed ex calciatori che si sono realizzati ai massimi livelli in cui emerge come quando si è in campo le differenze non esistono. Come dice Albertini: che sia la Champions League o che sia il torneo del ‘Nievo’, le emozioni del campo sono quelle!
Sorrentino poi è stato incredibile, ci ha anche accolto a casa sua. È stato veramente il numero 1 perché ci ha aiutato anche a pubblicizzare il film. Lui e Pellissier si sono rivelati di una gentilezza unica.
A Malesani invece sono arrivato tramite un amico in comune che ci ha messo subito in contatto. Il mister è stato molto disponibile, anche se all’inizio era un po’ titubante perché temeva che toccassimo alcuni temi scomodi. Poi in realtà ha capito che i nostri interessi erano altri: addirittura ci ha invitato sul campo da golf insieme a lui, ha trascorso una mezz’ora con noi raccontandoci aneddoti davvero originali. Nel film c’è un parallelismo tra calcio e fede che secondo me è bellissimo. Quando ha capito che noi non volevamo il Malesani personaggio del web ma l’allenatore che ha dato tanto al calcio italiano, allora si è sciolto completamente.
Tommasi poi, nonostante il suo ruolo istituzionale di sindaco, ci ha concesso volentieri del tempo prezioso. Molto disponibile infine è stato anche Albertini, a cui siamo arrivati tramite un contatto comune.
In una frase, come spiegheresti a qualcuno che crede che si tratti solo di calcio, che invece tutto questo non è solo calcio?
Nel momento in cui ci sono ragazzi che si alzano alle 6 del mattino per andare a lavorare col pranzo al sacco, poi la sera vanno ad allenarsi ed arrivano stanchi morti a casa – senza prendere un euro – allora significa che c’è un amore incondizionato nei confronti di quello che fanno. Lo stesso vale per il torneo del ‘Nievo’, sia per le gioie che per i dolori. Sappiamo bene che non stiamo giocando la Champions League, ma per chi è in campo in quel momento ha la stessa valenza. Il calcio è universale ed è uno sport che appartiene a tutti.
Uscendo dal discorso Bootay, segui ancora il Chievo? Com'è nata la tua passione?
Sì, seguo ancora il Chievo. Io ho iniziato ad appassionarmi al calcio nel momento in cui il Chievo era sportivamente la prima squadra di Verona, anche se l’Hellas è sempre stata la squadra più storica della città. A me però sono sempre piaciuti gli outsiders e i personaggi che arrivano un po’ dal nulla: il Chievo non ha mai avuto una grande piazza né una superpotenza economica alle spalle, ma nonostante ciò siamo riusciti ad imporci su realtà con presupposti decisamente maggiori. Quello che sta facendo ora Pellissier lo ricalca molto, anche a livello imprenditoriale. La Clivense è tornata nel semi-professionismo, sperando che un giorno possa poi tornare ai massimi livelli.
Hai trasmesso la tua passione per il Chievo anche a papà Jerry. Che tifoso è?
All’inizio era abbastanza tranquillo, non seguiva molto il calcio quando io ero nelle giovanili del Chievo. Poi però si è avvicinato a questo mondo e finché la società non è fallita siamo sempre stati abbonati. Oggi posso dire che è un tifoso davvero accanito ed appassionato, anche lui si è affezionato tanto a questa realtà: per noi era difficile non provare un senso di appartenenza a questa squadra così piccola rispetto alle superpotenze con cui competeva.
Ricordo un aneddoto davvero divertente sul mio padre tifoso. In uno degli ultimi anni del Chievo in Serie A, alla penultima giornata, eravamo terzultimi e siamo andati in trasferta a Bologna a maggio. Io e mio padre eravamo insieme ad amici stretti. Il primo tempo è disastroso: il Chievo prende 3 pali e il Bologna segna, quindi in quel momento siamo virtualmente in Serie B. Nel secondo tempo però pareggiamo con Giaccherini e mio padre letteralmente impazzisce: noi eravamo nella parte di Tribuna confinante con la curva ospite del Chievo, estremamente numerosa, e al gol mio padre si riversa contro il vetro e battendo i pugni inizia ad urlare ‘Libidine!’. Pochi minuti dopo Inglese segna il secondo gol e il Chievo è praticamente salvo. Mio padre quindi torna al confine con la curva ed urla ‘Doppia libidineeee! Libidine coi fiocchi!’. In quell’istante gli ultras si accorgono di lui e si attaccano dalla parte opposta del vetro per festeggiare insieme. Ricorderò sempre l’immagine dei giocatori del Chievo che arrivano sotto la Curva per festeggiare ma non trovano nessuno, perché i tifosi sono tutti addosso a mio padre. Una scena da film davvero divertente!
Da sempre nel calcio esistono due scuole di pensiero sull'essere figli d'arte. Non ultima la discussione su Daniel Maldini. Facendo un parallelismo con la tua professione, avere un papà così famoso aiuta o è penalizzante?
Ho sempre vissuto tutto a livello familiare in maniera naturale. Mi sono appassionato al cinema da quando avevo 3 anni. La mia famiglia mi ha sempre supportato, ma mai imposto nulla: ho sempre potuto fare le mie scelte.
Chiaramente a mio padre tutto ciò fa piacere, però ad esempio non è mai stato coinvolto direttamente in questo progetto: pensa che addirittura è venuto alla prima al cinema senza alcun tipo di informazione, ma avendo solo visto il trailer. Sono molto contento che il film gli sia piaciuto, poi ovviamente mi ha dato consigli preziosi da parte di un occhio più esperto.
Sono figlio di un personaggio famoso e posso avere dei contatti è vero, ma non ho mai avuto aiuti in questo senso. Questo progetto è stato fatto in maniera del tutto indipendente e spinto dal basso, esclusivamente da giovani under 25.
Farai mai un film documentario sul Chievo o magari proprio sul tuo idolo Pellissier?
Effettivamente ci ho pensato ad un docufilm su Pellissier. Lo stesso Sergio mi fa spesso la battuta secondo cui io dovrei fare l’adattamento cinematografico alla sua biografia scritta dal giornalista Matteo Renzoni ‘Ho fatto 31’. Farei davvero volentieri la scenografia, bisogna solo trovare chi ce lo produce!
Seriamente però, l’idea di un progetto del genere nasce dal primo anno della Clivense, quando dalle ceneri di una società così importante come il Chievo Verona Pellissier decide di lanciare un nuovo club dal gradino più basso del calcio italiano facendo provini della serie “Campioni 2.0”: ecco, lì io era tentatissimo di prendere la telecamera e andare a fare riprese e seguire la stagione della squadra. Poi non lo feci perché ero troppo giovane ed inesperto, oltre al fatto che non avevo i mezzi.
Qui ha iniziato a germogliare l’idea di ‘Bootay Untold’, anche se ancora non lo sapevo. Mi sono lasciato ispirare da serie come ‘All or Nothing’ e ‘Welcome to Wrekham’, da cui ho preso il tema del calcio come sport sociale e umano.
Sogno nel cassetto: il Chievo che vince lo scudetto o tu che vinci il David di Donatello?
Il Chievo che vince lo scudetto, tutta la vita! Anche se caso mai… punto all’Oscar!
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